C’era una volta Chernobyl, uno dei posti più pittoreschi dell’Ucraina settentrionale, ricoperto di boschi di pini e betulle, abitato da animali di ogni specie.
Un bel giorno - siamo negli anni Settanta - il regime sovietico decide che lì accanto, nella città di Pripet, deve sorgere una centrale nucleare: abbattuti gli alberi, cacciata la fauna, c’è spazio solo per gli autocarri, le gru, le macchine escavatrici e tutte quelle attrezzature utili per segnare un’altra tacca sui piani quinquennali dell’URSS.
Allora la gente ignorava che anche se funzionano correttamente, le centrali atomo-elettriche producono un inquinamento radioattivo riscontrato anche a distanza di decine di chilometri. E quando si verifica un problema?
Succede quello che è avvenuto la notte del 26 aprile 1986, e la favola s’interrompe bruscamente. Quella notte, l’esplosione del quarto reattore distrugge totalmente la centrale nucleare di Chernobyl. Vengono inviati sul posto 40.000 giovanissimi soldati di leva, che a mani nude ripuliscono i giganteschi reattori, onorando con la vita uno Stato sempre meno interessato alle sorti del popolo.
La soluzione adottata è quella di sotterrare i rifiuti radioattivi, per evitare che emanino ancora le radiazioni mortali. Si sotterrano oggetti, ma anche l’intera foresta, perché gli alberi, pur essendo ormai morti, sono talmente radioattivi che se fosse scoppiato un incendio si sarebbe formata un’altra enorme pericolosissima nuvola.
E tutto confluisce nelle poco profonde falde acquifere, ovvero non si può scampare alle radiazioni. Le autorità sovietiche, sempre molto impegnate a mostrarsi invincibili, hanno cercato di coprire con il silenzio la tragedia di Chernobyl, rendendo pubblica la notizia dell’esplosione solo dopo diversi giorni.
Il Ministero della Sanità della Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina poté parlare alla popolazione attraverso i programmi radiotelevisivi solo dieci giorni dopo l’esplosione, e il suo discorso dovette essere sottoposto a censura.
Dopo tre anni, sostenne che il bilancio era di solo 209 persone ammalate, mentre la verità è che ci sono stati tantissimi morti, ma le cifre non sono note, secondo la prassi sovietica di insabbiare qualsiasi dato insidioso.
Se gli abitanti di Kiev, la città più vicina al luogo della tragedia, accusavano soltanto vertigini e fastidio alla gola, i più colpiti sono stati i bambini, anche quelli che dovevano ancora nascere. Per l’altissima percentuale di mutazioni genetiche ci sono stati casi di un bambino (nato morto) con tre teste, e un bambino “sirena”, nato con una coda di pesce al posto degli arti inferiori.
E decine di migliaia di bambini sono nati morti in Ucraina, ma anche in Bielorussia, Russia, Austria, Germania, Grecia, Svezia, Norvegia e Turchia. Quella notte del 26 aprile 1986, durante l’esplosione, dalla bocca del reattore numero quattro è uscito solo il 6% al massimo della quantità totale di combustibile nucleare esistente.
Il reattore è stato subito coperto, creando il “sarcofago”: un’enorme cassa di cemento armato contenente il 94% del materiale nucleare del reattore. È questa cassa che ci impedisce di parlare di Chernobyl al passato: il sarcofago è pieno di vistose crepe…
Pavel Nică, scomparso nel 2009 per eccessiva esposizione alle radiazioni, ha pagato con la vita l’amore per la verità. Nonostante l’orrore di cui si è fatto testimone, non ha perso la fede in Dio, non smette di ripetere che ci è andata bene.
Se fosse scoppiata tutta la centrale, a quest’ora la Terra sarebbe solo un ricordo. E vale la pena ricordare di questi tempi che una centrale atomica è “portatrice di morte sicura”.
Pavel Nică ha voluto ricordare quanti sono morti nell’esplosione e quanti ne hanno subito le conseguenze poi, per riscattarli dall’indifferenza del regime sovietico.
Il Ministero della Sanità della Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina poté parlare alla popolazione attraverso i programmi radiotelevisivi solo dieci giorni dopo l’esplosione, e il suo discorso dovette essere sottoposto a censura.
Dopo tre anni, sostenne che il bilancio era di solo 209 persone ammalate, mentre la verità è che ci sono stati tantissimi morti, ma le cifre non sono note, secondo la prassi sovietica di insabbiare qualsiasi dato insidioso.
Se gli abitanti di Kiev, la città più vicina al luogo della tragedia, accusavano soltanto vertigini e fastidio alla gola, i più colpiti sono stati i bambini, anche quelli che dovevano ancora nascere. Per l’altissima percentuale di mutazioni genetiche ci sono stati casi di un bambino (nato morto) con tre teste, e un bambino “sirena”, nato con una coda di pesce al posto degli arti inferiori.
E decine di migliaia di bambini sono nati morti in Ucraina, ma anche in Bielorussia, Russia, Austria, Germania, Grecia, Svezia, Norvegia e Turchia. Quella notte del 26 aprile 1986, durante l’esplosione, dalla bocca del reattore numero quattro è uscito solo il 6% al massimo della quantità totale di combustibile nucleare esistente.
Il reattore è stato subito coperto, creando il “sarcofago”: un’enorme cassa di cemento armato contenente il 94% del materiale nucleare del reattore. È questa cassa che ci impedisce di parlare di Chernobyl al passato: il sarcofago è pieno di vistose crepe…
Pavel Nică, scomparso nel 2009 per eccessiva esposizione alle radiazioni, ha pagato con la vita l’amore per la verità. Nonostante l’orrore di cui si è fatto testimone, non ha perso la fede in Dio, non smette di ripetere che ci è andata bene.
Se fosse scoppiata tutta la centrale, a quest’ora la Terra sarebbe solo un ricordo. E vale la pena ricordare di questi tempi che una centrale atomica è “portatrice di morte sicura”.
Pavel Nică ha voluto ricordare quanti sono morti nell’esplosione e quanti ne hanno subito le conseguenze poi, per riscattarli dall’indifferenza del regime sovietico.
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