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9 feb 2018

Luna e Gnac ( tratto da Marcovaldo di Italo Calvino)

Luna e Gnac ( tratto da Marcovaldo di Italo Calvino)
Un’insegna pubblicitaria di notte, con la sua alterna vicenda di accensioni e di spegnimenti, dà alla realtà circostante contorni innaturali. I bambini che si affacciano alla finestra dell’abbaino per contemplare il cielo si vedono per alcuni momenti sopraffatti dalla luce al neon che appiattisce la bellezza del cielo notturno. 

Ma tra la luce tagliente dell’insegna e la luce delicata e gentile della luna e delle stelle c’è uno spazio di breve durata che si concede ai sogni ora puerili ora favolosi dei genitori e dei ragazzi. Sarà un colpo bene assestato di un sasso lanciato con la fionda a spegnere l’insegna luminosa, per ristabilire il rapporto con l’ambiente circostante, per allontanare la luce offensiva del neon. 

Ma ecco che s’insinua la civiltà dei consumi, con la smania del guadagno che contamina Marcovaldo, facendo di lui un collaboratore della spietata macchina pubblicitaria: una nuova insegna luminosa, ancora più sfacciata e più violenta della concorrente, installata sul tetto della sua casa. E il margine di tempo per i sogni si riduce a pochissimi istanti. 


L’intimità è sempre più limitata e denudata dallo squallore prepotente della vita urbana e la zona dei sogni è sempre più occupata dall’artificio e dalla menzogna. La notte durava venti secondi, e venti secondi il Gnac. 

Per venti secondi si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce della luna crescente dorata, sottolineata da un impalpabile alone, e poi stelle che più si guardavano più infittivano la loro pungente piccolezza, fino allo spolverio della Via Lattea, tutto questo visto in fretta in fretta, ogni particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell’insieme che si perdeva, perché i venti secondi finivano subito e cominciava il Gnac. 

Il Gnac era una parte della scritta pubblicitaria Spaak-Cognac sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient’altro. La luna improvvisamente sbiadiva, il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi lanciavano gnaulii d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le grondaie e le cimase, ora, col Gnac, s’acquattavano sulle tegolea pelo ritto, nella fosforescente luce al neon. 

Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte correnti di pensieri. C’era la notte e Isolina coi suoi diciott’anni si sentiva trasportata per il chiar di luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi d’una serenata; c’era il Gnac e quella radio pareva pigliare un altro ritmo, un ritmo jazz, e Isolina si stirava nella vestina stretta e pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola. 

Daniele e Michelino, otto e sei anni, sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano invadere da una calda e soffice paura d’esser circondati da foreste piene di briganti; poi, il Gnac! e scattavano coi pollici dritti e gli indici tesi, l’uno contro l’altro: - Alto le mani! Sono Superman! – Domitilla, la madre, a ogni spegnersi della notte pensava: «Ora questi ragazzi bisogna ritirarli, quest’aria può far male. E Teresina affacciata a quest’ora è una cosa che non va!» 

Ma poi tutto era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla si sentiva in visita in una casa di riguardo. Fiordaligi, invece, ragazzo quindicenne precocemente sviluppato, vedeva ogni volta che si spengeva il Gnac apparire dentro la voluta del gi la finestrina appena illuminata d’un abbaino, e dietro il vetro un viso di ragazza color di luna, color di neon, color di luce nella notte, una bocca ancor quasi da bambina che appena lui le sorrideva si schiudeva impercettibilmente e già pareva aprirsi in un sorriso, quando tutt’un tratto dal buoi rispettava quello spietato gi del gnac e il viso perdeva i contorni, si trasformava in una fioca ombra chiara, e della bocca bambina non si sapeva più se aveva risposto al suo sorriso. 

 In mezzo a questa tempesta di passioni, Marcovaldo cercava di insegnare ai figlioli la posizione dei corpi celesti. – Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la Stella Polare segna il Nord. – E quell’altra, cosa segna?Quella segna ci. Ma non c’entra con le stelle. È l’ultima lettera della parola cognac. 

Le stelle invece segnano i punti cardinali. Nord Sud Est Ovest. La luna ha la gobba a ovest. Gobba a ponente, luna crescente. Gobba a levante, luna calante. – Papà, allora il cognac è calante? La ci ha la gobba a levante!Non c’entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla ditta Spaak. – E la luna che ditta l’ha messa? – La luna non l’ha messa una ditta. È un satellite, c’è sempre. – Se c’è sempre, perché cambia di gobba? – Sono i quarti. Se ne vede solo un pezzo. – Anche di cognac se ne vede solo un pezzo. – Perché c’è il tetto del palazzo Pierbernardi che più alto. – Più alto della luna?

E così, ad ogni accendersi del gnac, gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi coi commerci terrestri, ed Isolina trasformava un sospiro nell’ansimare d’un mambo canticchiato, e la ragazza dell’abbaino scompariva in quell’anello abbagliante e freddo, nascondendo la sua risposta al bacio che Fiordaligi aveva finalmente avuto il coraggio di mandarle sulla punta delle dita, e Daniele e Michelino coi pugni davanti al viso giocavano al mitragliamento aereo, – Ta-ta-ta-tà… – contro la scritta luminosa che dopo venti secondi si spegneva. – Ta-ta-ta-tà…Hai visto, papà, che l’ho spenta con una sola raffica? – disse Daniele, ma già, fuori della luce al neon, il suo fanatismo guerriero era svanito e gli occhi gli si riempivano di sonno. – Magari! – scappò detto al padre, – andasse in pezzi! Vi farei vedere il Leone, i Gemelli… – Il Leone! – 

Michelino fu preso d’entusiasmo. – Aspetta! – Gli era venuta un’idea. Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il gnac. 

 Si sentì la gragnuola cadere sparpagliata sulle tegole del tetto di fronte, sulle lamiere della gronda, il tintinnio dei vetri d’una finestra colpita, il gong d’un sassolino picchiato giù sulla scodella d’un fanale, una voce in strada: – Piovono pietre! Ehi lassù! Mascalzone! – 

Ma la scritta luminosa proprio sul momento del tiro s’era spenta per la fine dei suoi venti secondi. E tutti nella mansarda presero mentalmente a contare: uno due tre, dieci undici, fino a venti. Contarono diciannove, tirarono il respiro, contarono venti, contarono ventuno ventidue nel timore d’aver contato troppo in fretta, ma no, il gnac non si riaccendeva, restava un nero ghirigoro male decifrabile intrecciato al suo castello di sostegno come la vite alla pergola. – Aaah! – gridarono tutti e la cappa del cielo s’alzò infinitamente stellata su di loro. 

Marcovaldo, interrotto a mano alzata nello scapaccione che voleva dare a Michelino, si sentì come proiettato nello spazio. Il buio che ora regnava all’altezza dei tetti faceva come una barriera oscura che escludeva laggiù il mondo dove continuavano a vorticare geroglifici gialli e verdi e rossi, e ammiccanti occhi di semafori, il luminoso navigare dei tram vuoti, e le auto invisibili che spingono davanti a sé il cono di luce di fanali. 

Da questo mondo non saliva lassù che una diffusa fosforescenza, vaga come un fumo. E ad alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospettiva degli spazi, le costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove, sfera che contiene tutto e non la contiene nessun limite, e solo uno sfittire della sua trama, come una breccia, si apriva verso Venere, per farla risaltare sola sopra la cornice della terra, con la sua ferma trafittura di luce esplosa e concentrata in un punto. 

Sospesa in questo cielo, la luna nuova anziché ostentare l’astratta apparenza di mezzaluna rivelava la sua natura di sfera opaca illuminata intorno dagli sbiechi raggi d’un sole perduto dalla terra, ma che pur conservava – come può vedersi solo in certe notti di primavera – il suo caldo calore. E Marcovaldo, a guardare quella stretta riva di luna tagliata là tra ombra e luce, provava una nostalgia come di raggiungere una spiaggia rimasta miracolosamente soleggiata nella notte. 

Così restavano affacciati alla mansarda, i bambini spaventati dalle smisurate conseguenze del loro gesto, Isolina rapita come in estasi, Fiordaligi che unico tra tutti scorgeva il fioco abbaino illuminato e finalmente il sorriso lunare della ragazza. La mamma si riscosse: – Su, su, è notte, cosa fate affacciati? Vi prenderete un malanno sotto questo chiaro di luna!  Michelino puntò la fionda in alto. – E io spengo la luna! – Fu acciuffato emesso a letto. 

Così per il resto di quella e per tutta la notte dopo, la scritta luminosa sul tetto di fronte diceva solo Spaak-Co e dalla mansarda di Marcovaldo si vedeva il firmamento. Fiordaligi e la ragazza lunare si mandavano baci sulle dita, e forse parlandosi alla muta sarebbero riusciti a fissare un appuntamento. 

Ma la mattina del secondo giorno, sul tetto, tra i castelli della scritta luminosa si stagliavano esili esili le figure di due elettricisti in tuta, che verificavano i tubi e i fili. Con l’aria dei vecchi che prevedono il tempo che farà, Marcovaldo mise il naso fuori e disse: – Stanotte sarà di nuovo una notte di gnac. Qualcuno bussava alla mansarda. Aprirono. Era un signore con gli occhiali. – Scusino, poteri dare un’occhiata dalla loro finestra? Grazie, – e si presentò: – Dottor Godifredo, agente di pubblicità luminosa. «Siamo rovinati! Ci vogliono far pagare i danni – pensò Marcovaldo e già si mangiava i figli con gli occhi, dimentico dei suoi rapimenti astronomici. – Ora guarda dalla finestra e capisce che i sassi non possono essere stati tirati che di qua». 

 Tentò di mettere le mani avanti: – Sa, son ragazzi, tirano così, ai passeri, pietruzze, non so come mai è andata a guastarsi quella scritta della Spaak. Ma li ho castigati, eh, se li ho castigati! E può star sicuro che non si ripeterà più. Il dottor Godifredo fece una faccia attenta. – Veramente, io lavoro per la «Cognac Tomawak», non per la «Spaak». Ero venuto per studiare la possibilità d’una réclame luminosa su questo tetto. Ma mi dica, mi dica lo stesso, m’interessa

Fu così che Marcovaldo, mezz’ora dopo, concludeva un contratto con la «Cognac Tomawak», la principale concorrente della «Spaak». I bambini dovevano tirare con la fionda contro il gnac ogni volta che la scritta veniva riattivata. – Dovrebb’essere la goccia che fa traboccare il vaso, – disse il dottor Godifredo. Non si sbagliava: già sull’orlo della bancarotta per le forti spese di pubblicità sostenute, la «Spaak» vide i continui guasti alla sua più bella réclame luminosa come un cattivo auspicio. 

La scritta che ora diceva cogac ora conac ora cong diffondeva tra i creditori l’idea d’un dissesto; a un certo punto l’agenzia pubblicitaria si rifiutò di fare altre riparazioni se non le venivano pagati gli arretrati; la scritta spenta fece crescere l’allarme tra i creditori; la «Spaak» fallì. 

Nel cielo di Marcovaldo la luna piena tondeggiava in tutto il suo splendore. Era l’ultimo quarto, quando gli elettricisti tornarono a rampare sul tetto di fronte. E quella notte, a caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima, si leggeva Cognac Tomawak, e non c’erano più luna né firmamento né cielo né notte, soltanto Cognac Tomawak, Cognac Tomawak che s’accendeva e si spegneva ogni due secondi. Il più colpito di tutti fu Fiordaligi; l’abbaino della ragazza lunare era sparito dietro a un’enorme, impenetrabile vu doppia.

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